Ieri
sono stato là dove, secondo le mie ricerche, vivevano il
mio nonno paterno da bambino, quasi sicuramente sua madre, la mia
bisnonna, e i genitori di lei.
In effetti, due vecchie fotografie, scoperte in una delle tante
scatole di immagini che mia nonna, morta di recente, conservava
alla rinfusa, ritraggono l’una un gruppo di famiglia di inizio
secolo in posa davanti a una locanda e l’altra, scattata durante
un matrimonio e scura di persone, quella stessa famiglia, confusa
tra la folla, davanti alla stessa locanda.
Mia nonna, risposatasi dopo che il primo marito, mio nonno, era
morto all’età di trent’anni circa, non aveva
mai menzionato, di fronte al figlio o ai nipoti, questo ramo familiare
precocemente spezzato. Conoscevamo i fatti, sapevamo dell’esistenza
di un primo marito, il nostro nonno biologico, però nessuno
ci parlò mai di lui, né da bambini né da adulti.
E neppure ci capitò di vederne una fotografia, così
io rimasi a lungo convinto che questa persona non avesse mai contato
realmente, tanto era il vuoto che la circondava. La nonna, per non
urtare la suscettibilità del secondo marito e confermarne
la supremazia anche sui rivali venuti prima di lui e poi scomparsi,
aveva scelto di seppellire nel cimitero dei dimenticati ogni traccia
del suo primo legame e, addirittura, di non parlarne più.
E del nonno non seppi mai nulla più di quanto sapesse mio
padre, salvo il fatto, del tutto insignificante proprio perché
molti altri lo conoscevano, che era morto durante l’ultima
guerra. Povero giovane nonno, mai raccontato, mai visto nemmeno
in fotografia, trasparente come l’uomo invisibile, falciato
due volte, prima e fisicamente, da una crisi acuta di malaria che
lo abbatté in Cocincina nel 1941 durante i ventiquattro mesi
in cui prestò servizio nelle nostre colonie come secondo
ufficiale radiofonista della marina; e poi, simbolicamente ma non
meno tragicamente, da metri cubi di silenzio, versati come calce
viva sulla sua esistenza passata.
Non mi sento di infierire troppo sul comportamento della nonna,
che, per tenere lontana la sofferenza, fece l’errore di rinchiuderla
nello stesso sacco delle sue vittime. Tuttavia, anche in assenza
di un autentico culto della memoria, avrebbe dovuto parlarci almeno
una volta di colui che non era più, perché sapessimo
chi era stato, ne conoscessimo l’unicità, gli ideali,
le lotte. Certo, non era morto eroicamente alla mitragliatrice di
una batteria contraerea o ai comandi di una torpediniera, ma la
sua morte semplice mentre, esiliato dalla famiglia, dal figlio e
dalla moglie, si guadagnava da vivere per offrire a lei la casa
che tanto desiderava, mi sembra meritasse almeno la gentilezza di
un ricordo.
Mia nonna amò molto il suo secondo marito, che le somigliava
in misura senza dubbio maggiore. Più superficiale, forse
troppo pieno di sé, autoritario, psicologicamente poco sottile
e molto reciso nei suoi giudizi, lui la rassicurava in un modo un
po’ primordiale offrendole la certezza della sua protezione,
lui che in caso di zuffe non era certo l’ultimo a buttarsi
in mezzo e menare, ovviamente con destrezza, le mani. La nonna dovette
sicuramente ritenerlo capace di affrontare nello stesso modo i colpi
della sorte, e pensare che fosse tipo da tenere testa alla sventura
in persona.
A quasi quarant’anni, scopro e rimetto al loro posto le tessere
del puzzle da tempo perdute.
Ieri sono andato a Plouézoch, là dove non ero mai
stato, un luogo che era per me solo un nome, letto da poco in cima
a una vecchia pagina di quando mio nonno scriveva lettere d’amore
alla fidanzata. Ho fatto tranquillamente il giro della cappella
di Saint-Antoine e all’improvviso, voltandomi, mi sono reso
conto che la locanda ridipinta di bianco sull’altro lato della
strada aveva, nella sua scalinata esterna, un che di familiare.
Mi sono avvicinato e non ho avuto più dubbi: la locanda era
la stessa della fotografia. Quel giorno era deserta. Nessun movimento,
nessuna auto, porte e finestre chiuse. Ma il mio salto all’indietro
nel tempo di almeno cent’anni mi aveva catapultato nel cuore
stesso della mia famiglia, finora sconosciuta e taciuta. La facciata
della locanda non era cambiata e l’edificio principale, nel
suo insieme, non aveva subito ritocchi, pittura a parte. La locanda
se ne stava silenziosa sul ciglio della strada; un cartello segnalava
che era in vendita e che si poteva contattare il notaio al numero
indicato. La sovrapposizione era perfetta. Tutto era come allora,
a eccezione delle persone. L’intera folla era ormai scomparsa,
spazzata via dalla marea degli anni. Svanita la sposa insieme al
prestante marito, spariti i bambini turbolenti, seduti a terra nel
solo attimo dello scatto. La festa di nozze si era dissolta nel
tempo così come un fuscello di paglia portato dal vento si
perde nell’aria. E c’ero io, io che tentavo di ricongiungermi
a persone che sentivo sempre più familiari e care. Dov’era
andato quel bis-bisnonno dai tratti tormentati e dallo sguardo grave?
Avrei voluto vederlo rivivere per qualche minuto in quella locanda,
forse intento a dirigere tutta quella gente, a concludere quella
festa di nozze durata magari due o tre giorni. Cos’era stato
di sua moglie, la mia bis-bisnonna, dall’espressione così
buona e indulgente? Avrei voluto entrare nella locanda chiusa per
impregnarmi di passato, per cogliere un profumo, con la folle speranza
di incontrare e ritrovare in cima alle scale questi uomini e queste
donne che amavo tanto. Avrei voluto che sapessero di essere nei
miei pensieri, ringraziarli perché, se oggi io sono vivo,
lo devo anche a loro. Avrei voluto spiegare che anch’io, nella
vita, mi sforzo di agire nel miglior modo possibile. Avrei voluto
che fossero certi del mio appoggio, al di là del tempo, per
tutte le tragedie che avrebbero vissuto, gli uni e gli altri, tragedie
che già conoscevo, io che venivo dal futuro nel momento in
cui il fotografo azionava lo scatto. Avrei voluto camminare nel
loro stesso spazio, ricalcare con i piedi le loro orme e sentirli,
se possibile, ancora più vicini a me, che guardavo da dove
loro avevano guardato. Volevo tendere loro la mano, lo volevo tanto
più fortemente perché mi erano stati sottratti per
omissione, volevo recuperare il tempo perduto del silenzio, del
disinteresse, dell’oblio. Avevano lavorato, amato, sofferto
in un'epoca aspra e dura, senza che ciò li privasse di un
sorriso generoso come quello che mi rivolgeva, un secolo dopo, la
mia cara e serena antenata. Ero fiero di far parte della loro discendenza,
perché quei volti leali e onesti non mi deludevano. Li adottavo
con gioia, loro, i loro figli e i figli dei loro figli, che poco
a poco imparavo a conoscere come un orfano che ritrovi i genitori
dopo una vita di separazione. Scoprire lettere, fotografie e luoghi
mi rendeva ciascuno di loro sempre più intimo e prezioso.
I nomi dolcemente desueti assumevano echi di amicizia. Ho rievocato
Anna e Perrine e Jeanne.
Ho assaporato il profumo degli alberi e delle felci dell’entroterra
bretone, ho fissato nella memoria la luce radente, così particolare,
che scendeva dalle nuvole basse e bianche per non dimenticare mai
Saint-Antoine a Plouézoch. Ho pensato che, anche se la locanda
era chiusa, forse i proprietari erano ancora là, e così
ho suonato, pronto a raccontare la mia piccola storia per avere
il permesso di entrare e vedere qualcosa di più, cogliere
gli spazi, forse ammirare le modanature, una vecchia porta in legno,
la balaustra levigata di una scala. Il campanello è risuonato
all’interno, ma nessuno è venuto ad aprire: la locanda
era vuota, priva persino di fantasmi. Ero là, proprio nel
cuore della festa di nozze di un tempo, immobile davanti alla porta
nel deserto del presente, e sono tornato sui miei passi a malincuore,
verso la macchina, voltandomi ancora indietro a guardare.
Ora so chi è chi. Conosco i visi di tutti e so dove vivevano.
Ho respirato l’aria che loro respiravano, accarezzato le pietre
lisce della locanda dove sostarono. So da dove vengo, ormai, e proprio
per questo sono più sicuro di sapere dove vado.